Emptiness

Il vuoto delimita i tuoi confini, definisce i tuoi tratti, ti assegna un’identità.

Come lo squarcio che si crea nello stomaco quando hai voglia, quando hai caldo e una mano bagnata sfiora la tua schiena, quando i limiti fra lingue, labbra e denti si aggrovigliano.

Quelle mani sui fianchi battono tempi sempre uguali, la voce si spezza in gola, sussulti quando ti manca l’aria. E i secondi passano, riempiendo vuoti.

Il tempo è vuoto. Lo spazio è vuoto. La vita porta con sé il nulla.

E a riempire il vuoto ci vuole un minuto, a liberarsi dalla colpa un’eternità.

Il tempo si ferma soltanto durante un pompino, fatto bene.

Chissà se c’è un angolino dove sentirsi al sicuro, dove tornare a respirare.

Dov’è che non si prova più paura? Dov’è che non si sente più la colpa?

Dove digerire le emozioni? Dove tutto scende giù, per sempre?

Non so più scrivere, non so più pensare, non so più come creare parole, belle come grandiosi monumenti innalzati al cielo.

Fuggo, in corsa contro il tempo. Il tempo, uguale a sè stesso, perennemente dilatato. Ma non riesco a sentirne il battito rallentato. Sembra solo un ticchettìo veloce di unghie su un tavolo, ore che sembrano secondi, giorni irriconoscibili che portano sempre allo stesso epilogo: e se tutto questo dovesse finire?

Il tempo si ferma soltanto durante un pompino, fatto bene.

Silenzio. Penombra. Occhi spalancati persi nel vuoto della memoria. Quella memoria così piena e così fragile. In quei secondi il tempo si ferma.

Se non posso respirare fammi almeno ingoiare. Fatti toccare. Fatti leccare.

Non importa chi ci sia davanti, non importa cosa mi dici. Non importano le tue parole. Stà in silenzio, ché in silenzio mi puoi soffocare. Chiudi gli occhi. Penombra. Godi. Gola. Godo.

Apri gli occhi. Solo un mucchio di capelli chino su di te. Raccoglili in una mano, intrecciali fra le tue dita, tirali lentamente, controllami, dammi il ritmo. Illudimi di volermi guardare negli occhi almeno per un secondo. Ributtami giù. Con violenza. Scoprimi il collo. Stringilo forte.

Il tempo si ferma per un attimo durante un pompino, fatto bene.

La notte è un buco nero che ingoia tutto, attimi, sperma, frammenti di stelle, secondi, melodie, bicchieri di vino.

7 – La Noia

Avviso ai lettori: La saga di Amy fa parte di un lungo ciclo di racconti molto brevi iniziato quasi dieci anni fa. Questo è uno dei tanti, o forse l’Uno dei tanti. Potrebbe benissimo esserne il primo, o l’ultimo, ma mai uno intermedio. Amy è il mio personaggio; quello che Amy vive sono vite parallele di cui nessuno più ha memoria, ma solo sbiaditi ricordi; io sono la voce narrante. È facile parlare di sè in prima persona, sbattersi su un foglio bianco alla mercè di tutti, incurante dei giudizi altrui. Quello che è difficile è leggersi dal di fuori, analizzarsi lucidamente, sottostare al proprio feroce giudizio uscendone a pezzi, ma senza uscirne pazzi.

 

Ci sono volte in cui le parole sono stonate, non hanno nulla di poetico e devono essere feroci; questa è una di quelle.

Rileggere fa star male, lascia l’amaro in bocca, dà la Nausea.

L’interno di una camera di hotel è senza identità, come chi vi abita. È il luogo giusto per spogliarsi delle proprie maschere e indossarne di nuove, quelle di una vita fa.

Amy leggeva una rivista seduta su una poltrona, con vestiti che usualmente non indossava mai nei momenti di relax. I capelli bagnati le gocciolavano su un abitino in seta troppo corto, le gambe, distese su un tavolinetto, sembravano lunghissime per via dei sandali col tacco molto alto.

Amy attendeva un uomo che non sarebbe tardato ad arrivare, suo malgrado.

Lo sapeva, sapeva che sarebbe arrivato in anticipo, così come sapeva tutto ciò che sarebbe successo. Non era difficile immaginarlo. Ma Amy conosceva ogni singola parola che lui avrebbe pronunciato. Amy sapeva guardare dentro gli uomini, o forse riusciva a parlare bene con lo sguardo, attirandoli e facendo dire loro quello che voleva sentirsi dire.

Il rifiuto di ascoltare quelle frasi era di sicuro un desiderio celato. Lo squallore di quei momenti era quello che doveva rivivere ad ogni costo, per un misterioso motivo.

Lo aveva sedotto a lungo questa volta, erano stati mesi di intenso piacere, perché Amy adorava quel gioco, ripetitivo e rassicurante come quello di un bambino che tira la palla contro un muro, e poi la riprende. Ogni singolo sguardo di Amy significava per lui “Prendimi”, tutte le volte che le sue ciglia si schiudevano su quegli occhi grigio temporale D. la immaginava a bocca aperta su di lui. Era un non dire, un immaginare, erano parole troppo forti per spiegare il desiderio, era un magnetismo incontrollabile quello che Amy suscitava.

Non avrebbe voluto mai che finisse, Amy, questo gioco di tensione, era la tensione quella che la scopriva viva e potente. Ma ogni tensione deve risolversi prima o poi, come un accordo di settima e la sua risoluzione, l’amara vita terrena lo impone; ed era questo il momento che Amy più di tutti detestava. Forse il suo odio per questi istanti non scaturiva dal sapere già cosa sarebbe avvenuto. Forse in un qualche modo aveva paura di rivivere sempre la stessa scena.

Sono convinta che Amy mettesse in atto il suo teatrino, sempre uguale, proprio per rivivere di nuovo quel momento, nonostante lo evitasse a tutti i costi. A volte, spogliarti dei tuoi vestiti non basta a lavar via le Colpe. L’acqua è troppo dolce col nostro corpo e le sue carezze non son quello che si merita.

Quando D. avrebbe bussato alla porta Amy sarebbe andata ad aprirgli, con lo sguardo sorpreso, facendo finta di non saper nulla di quello che l’attendeva. Lui l’avrebbe guardata per un piccolo istante, ancora incerto sulla sua prossima azione, e lei lo avrebbe avvicinato delicatamente a sè per salutarlo. La forte attrazione li avrebbe attirati troppo vicini l’uno all’altra; ascoltare il respiro di Amy che andava veloce lo avrebbe fatto impazzire, togliendogli ogni resistenza nel momento in cui Amy si sarebbe avvicinata alle sue labbra per sussurrargli “Ciao”. D. sarebbe rimasto in balìa del suo fascino, come impietrito, aspettando ancora un altro cenno da parte sua. Amy avrebbe fatto la prima mossa, d’altronde era il suo gioco, lei doveva iniziarlo, era sua e solo sua la scelta.

Amy avrebbe avvicinato ancora di più la sua bocca socchiusa a lui, respirandolo forte, avrebbe iniziato a mordergli le labbra, a leccargli via il sapore di menta dalla sua lingua, in modo gentile, lentamente, come solo lei sapeva esserne padrona e maestra.

Ma come già detto nessuna poesia per Amy, non oggi, non adesso, nè per l’eternità. Quello che D. le avrebbe sussurrato era “Voglio sbattertelo nel culo Amy. Voglio farti gridare di averne abbastanza, e continuare ancora quando mi chiederai di smetterla”.

Era il gioco dello schiavo che ambisce a diventare padrone, a prendersi la sua rivincita. Era il gioco della potenza femminile piegata a novanta, sotto il peso della forza dell’uomo; per D.

Era il rivivere perennemente lo squallore per scrostarsi di dosso il Peccato, era la sofferenza originaria purificatrice, che si rinnovava ancora una volta in attesa dell’Assoluzione; per Amy.

Le sue grida di piacere in quell’anonima stanza di hotel risuonavano banali come le tende bordeaux in stoffa pesante e polverosa che oscuravano le finestre. Il voler perdere la battaglia sotto i colpi sferzanti di lui era qualcosa di già provato. Il desiderio era già morto nel momento stesso in cui D. era spuntato da quella porta. Adesso era solo consapevolezza. Il corpo di Amy vibrava di piacere, avrebbe voluto continuare così per ore, posticipando il momento finale, perché se non arrivi alla fine puoi sperare che sia diversa, almeno per una volta.

E così come ogni morte porta ad una nuova vita, anche quel momento si concluse con un orgasmo feroce, animale, che riportò il sorriso e la dolcezza sul viso di D., e la disperazione nello sguardo di Amy. La sua nuova vita da farfalla non era luminosa e pura come l’avrebbe voluta, come non se la sarebbe mai aspettata.

Adesso erano solo centimetri di pelle percorsi per nulla e parole vuote. Piacere assoluto privo di un senso. L’alba della sua nuova vita era grigia e angosciante come prima, una ripetizione di atti di una commedia disperata. Adesso era di nuovo Noia.

A gocce

A gocce vorrei assaggiarti, per sentire il tuo sapore da piccolo punto espandersi dentro di me.

A gocce vorrei assumerti, per provare l’astinenza e poi inebriarmi tutto d’un fiato.

A gocce vorrei conoscerti, per sentire il dubbio, il desiderio e la mancanza.

A gocce vorrei ingoiarti, a bocca aperta, come si fa con la prima pioggia di settembre dopo il gran caldo.

A gocce vorrei mescolarmi a te, per non sentire il gran trambusto del ciclone che mi procuri dentro.

A gocce.
Lentamente.
Instillati in me.

Lascio tracce in questa vita, le ritrovo nelle altre

Nuvole stanche stanotte.
Porti il bicchiere alla bocca, l’acqua fresca in gola, la lingua umida sulle labbra.
Un altro giorno è passato, un giorno più lungo della vita oltre la morte.
Immagini recenti di qualche anno fa, ma di quale vita non ricordi più.
Lividi sulle ginocchia – “Ma non importa, tanto poi passa, non fa male tranne se tocchi” – mi ricordano di quando per un attimo non ho più sentito quel vuoto.
Tracce di matita sulle labbra, a volte interrotta, portata via dalla sua bocca.
Pensieri a tratti fanno capolino nella mente: “Dio! L’avrò cancellato? Che ore sono? Si è fatto tardi!”
Voglia di una sigaretta: “Ti prego fammi fare un tiro, dalla tua, solo una volta!”
Brividi lungo la schiena: “Dammi quella coperta”
Chiudi la mente, riempi quel vuoto, trattieni il respiro, fatti abbracciare, fai un lungo pianto.
Nuvole stanche stanotte. Domani ancora di più.

On Air:

Notti insonni

“Ad un tratto, col vino ancora in gola, mi ero resa conto di aver bisogno del suo aiuto.
Un esempio. Mi serviva solo un esempio.
Non sono mai stata brava a chiedere aiuto né favori, ancor meno a parlare con le persone. Ma questa volta avrei dovuto farlo. Avrei dovuto chiedergli come riusciva a gestire la rabbia.
Avevo bisogno di sapere che era riuscito a disciplinarla, a renderla docile come un agnellino, a modellarla fra le mani, a toglierle le spigolosità e ad accarezzarla, curvandola sotto il suo tocco deciso.
Avevo bisogno di sapere che era riuscito a farsela amica, compagna di bevute, presenza di fondo nelle sue poetiche attività.
Avevo bisogno di immaginare che era stata la rabbia ad ispirare le sue notti insonni, fatte di matite, fogli bianchi e letti disfatti.
Avevo un morboso bisogno di conoscere come la rabbia avesse guidato le sue mani su corpi altrui, lo avesse schiacciato su di loro, lo avesse spinto fino in fondo.
Volevo sentire dalle sue labbra il racconto di come la rabbia lo accompagnasse nei suoi movimenti, rendesse ferma la sua presa ed insistente la sua bocca.
Non era curiosità, era diventato un bisogno, una necessità.
La mia nuova condizione mi spiazzava, sentivo il bisogno di certezze. Immaginavo certezze. Chiedevo certezze.
Avrei voluto che mi mostrasse come faceva.
Avevo bisogno che mi mostrasse come piegava la rabbia, sopra di me, sotto di lui.
Avevo bisogno che mi insegnasse a spalmarla quella rabbia, mista al sudore dei nostri corpi, in notti insonni, fatte di matite, fogli bianchi e letti disfatti.”