7 – La Noia

Avviso ai lettori: La saga di Amy fa parte di un lungo ciclo di racconti molto brevi iniziato quasi dieci anni fa. Questo è uno dei tanti, o forse l’Uno dei tanti. Potrebbe benissimo esserne il primo, o l’ultimo, ma mai uno intermedio. Amy è il mio personaggio; quello che Amy vive sono vite parallele di cui nessuno più ha memoria, ma solo sbiaditi ricordi; io sono la voce narrante. È facile parlare di sè in prima persona, sbattersi su un foglio bianco alla mercè di tutti, incurante dei giudizi altrui. Quello che è difficile è leggersi dal di fuori, analizzarsi lucidamente, sottostare al proprio feroce giudizio uscendone a pezzi, ma senza uscirne pazzi.

 

Ci sono volte in cui le parole sono stonate, non hanno nulla di poetico e devono essere feroci; questa è una di quelle.

Rileggere fa star male, lascia l’amaro in bocca, dà la Nausea.

L’interno di una camera di hotel è senza identità, come chi vi abita. È il luogo giusto per spogliarsi delle proprie maschere e indossarne di nuove, quelle di una vita fa.

Amy leggeva una rivista seduta su una poltrona, con vestiti che usualmente non indossava mai nei momenti di relax. I capelli bagnati le gocciolavano su un abitino in seta troppo corto, le gambe, distese su un tavolinetto, sembravano lunghissime per via dei sandali col tacco molto alto.

Amy attendeva un uomo che non sarebbe tardato ad arrivare, suo malgrado.

Lo sapeva, sapeva che sarebbe arrivato in anticipo, così come sapeva tutto ciò che sarebbe successo. Non era difficile immaginarlo. Ma Amy conosceva ogni singola parola che lui avrebbe pronunciato. Amy sapeva guardare dentro gli uomini, o forse riusciva a parlare bene con lo sguardo, attirandoli e facendo dire loro quello che voleva sentirsi dire.

Il rifiuto di ascoltare quelle frasi era di sicuro un desiderio celato. Lo squallore di quei momenti era quello che doveva rivivere ad ogni costo, per un misterioso motivo.

Lo aveva sedotto a lungo questa volta, erano stati mesi di intenso piacere, perché Amy adorava quel gioco, ripetitivo e rassicurante come quello di un bambino che tira la palla contro un muro, e poi la riprende. Ogni singolo sguardo di Amy significava per lui “Prendimi”, tutte le volte che le sue ciglia si schiudevano su quegli occhi grigio temporale D. la immaginava a bocca aperta su di lui. Era un non dire, un immaginare, erano parole troppo forti per spiegare il desiderio, era un magnetismo incontrollabile quello che Amy suscitava.

Non avrebbe voluto mai che finisse, Amy, questo gioco di tensione, era la tensione quella che la scopriva viva e potente. Ma ogni tensione deve risolversi prima o poi, come un accordo di settima e la sua risoluzione, l’amara vita terrena lo impone; ed era questo il momento che Amy più di tutti detestava. Forse il suo odio per questi istanti non scaturiva dal sapere già cosa sarebbe avvenuto. Forse in un qualche modo aveva paura di rivivere sempre la stessa scena.

Sono convinta che Amy mettesse in atto il suo teatrino, sempre uguale, proprio per rivivere di nuovo quel momento, nonostante lo evitasse a tutti i costi. A volte, spogliarti dei tuoi vestiti non basta a lavar via le Colpe. L’acqua è troppo dolce col nostro corpo e le sue carezze non son quello che si merita.

Quando D. avrebbe bussato alla porta Amy sarebbe andata ad aprirgli, con lo sguardo sorpreso, facendo finta di non saper nulla di quello che l’attendeva. Lui l’avrebbe guardata per un piccolo istante, ancora incerto sulla sua prossima azione, e lei lo avrebbe avvicinato delicatamente a sè per salutarlo. La forte attrazione li avrebbe attirati troppo vicini l’uno all’altra; ascoltare il respiro di Amy che andava veloce lo avrebbe fatto impazzire, togliendogli ogni resistenza nel momento in cui Amy si sarebbe avvicinata alle sue labbra per sussurrargli “Ciao”. D. sarebbe rimasto in balìa del suo fascino, come impietrito, aspettando ancora un altro cenno da parte sua. Amy avrebbe fatto la prima mossa, d’altronde era il suo gioco, lei doveva iniziarlo, era sua e solo sua la scelta.

Amy avrebbe avvicinato ancora di più la sua bocca socchiusa a lui, respirandolo forte, avrebbe iniziato a mordergli le labbra, a leccargli via il sapore di menta dalla sua lingua, in modo gentile, lentamente, come solo lei sapeva esserne padrona e maestra.

Ma come già detto nessuna poesia per Amy, non oggi, non adesso, nè per l’eternità. Quello che D. le avrebbe sussurrato era “Voglio sbattertelo nel culo Amy. Voglio farti gridare di averne abbastanza, e continuare ancora quando mi chiederai di smetterla”.

Era il gioco dello schiavo che ambisce a diventare padrone, a prendersi la sua rivincita. Era il gioco della potenza femminile piegata a novanta, sotto il peso della forza dell’uomo; per D.

Era il rivivere perennemente lo squallore per scrostarsi di dosso il Peccato, era la sofferenza originaria purificatrice, che si rinnovava ancora una volta in attesa dell’Assoluzione; per Amy.

Le sue grida di piacere in quell’anonima stanza di hotel risuonavano banali come le tende bordeaux in stoffa pesante e polverosa che oscuravano le finestre. Il voler perdere la battaglia sotto i colpi sferzanti di lui era qualcosa di già provato. Il desiderio era già morto nel momento stesso in cui D. era spuntato da quella porta. Adesso era solo consapevolezza. Il corpo di Amy vibrava di piacere, avrebbe voluto continuare così per ore, posticipando il momento finale, perché se non arrivi alla fine puoi sperare che sia diversa, almeno per una volta.

E così come ogni morte porta ad una nuova vita, anche quel momento si concluse con un orgasmo feroce, animale, che riportò il sorriso e la dolcezza sul viso di D., e la disperazione nello sguardo di Amy. La sua nuova vita da farfalla non era luminosa e pura come l’avrebbe voluta, come non se la sarebbe mai aspettata.

Adesso erano solo centimetri di pelle percorsi per nulla e parole vuote. Piacere assoluto privo di un senso. L’alba della sua nuova vita era grigia e angosciante come prima, una ripetizione di atti di una commedia disperata. Adesso era di nuovo Noia.

Le mie calze di lana blu a fiori

“Tutto ad un tratto le case iniziarono a volare, cadevano giù dalla montagna come piccoli soprammobili e danzavano in cerchio come se si dessero la mano.
Il cielo era cupo e triste, di un giallo tetro come quello dei tuoi peggiori incubi, nuvole dense presagio di morte.
La gente volava, e moriva.
La gente ci finiva di sopra a pioggia, ma non c’erano ombrelli per ripararci, e le ampie vetrate ci lasciavano spettatori inermi in balia di quell’atroce destino.
L’angoscia ci abbracciava con le sue vesti ampie e vaporose, quei pochi centimetri di mattoni che ci separavano l’un l’altro erano inesistenti per i nostri cuori, spazi troppo larghi per i nostri corpi.
Le mie calze di lana blu a fiori si smagliavano. Erano fiori ricamati con lana di mille colori.
Erano dettagli da cogliere in imprecisati istanti.
E cento e più fili venivano fuori da ogni bocciolo, gialli, rosa, rossi e arancio; e cento e più fili cercavo di rimettere a posto.
Era un lavorìo senza fine, per ogni filo che ritiravo altri cento ne venivano fuori.
Istanti che sembravano infiniti nella mia azione di ricomporre quei fiori, istanti che duravano troppo poco per fermare la tragedia che stava per colpire tutti noi.
E c’era mia nonna, c’era sempre mia nonna.
Vegliava su di me, pressando col ditale sull’ago grosso della lana per porgemi il filo da ritirare.
C’era mia nonna col completo blu che le avevo scelto io, poco tempo fa.”

Movimento. Pausa. Movimento.

Routine quotidiana. Gli impegni mi soffocano.
Tempo. L’angoscia del tempo mi assale.
Le corse, la fretta, il traffico, il mare.
Doveri, doveri e ancora doveri.
Lo studio. Lo studio mi piace, ma occupa tempo.
Il corpo. Le corse contro il tempo. La corsa contro Il Tempo.
I clacson, la sabbia, l’affetto di un cane.
Colloqui, riunioni, la musica in auto.
Il cielo plumbeo, le cose stese, un muso dentro la mia mano.

A volte mi fermo.
A volte rifletto.

A volte ritengo inutile molto di tutto ciò.
A volte penso che servirebbe una pausa.
A volte credo che ci siano altre priorità, ma nessuno le riconosce finché è inglobato nel sistema.

Mi hanno fatto sbagliata.
Mi hanno fatto diversa.
Mi hanno fatto per sognare in giro per il mondo con un trolley semi-disfatto.

E per questo ci sto male. Nel sistema intendo. Io ci sto male. Sono un pezzo sbagliato, che non ingrana, che non incastra.
Io sono fuori standard.